Yuntaku: il primo amaro che ci porta in Giappone


14 novembre 2022

È stato chiamato con una parola - ‘yuntaku’ - che in giapponese significa ‘chiacchiere’, ispirandosi a un detto tipico delle osterie di Okinawa, nelle quali alla fine della cena si usava gridare, per l’appunto, yuntaku! per dare il via alle bevute alcoliche e alle chiacchere tra i commensali.

È un progetto e un’idea innovativa, e soprattutto è il primo amaro di ispirazione giapponese. Ci siamo fatti raccontare un po’ di cose dai suoi ideatori, Benedetta Santinelli e Simone Rachetta, che ci hanno accompagnati in un viaggio appassionato e appassionante attraverso il Giappone meno conosciuto, lontano dai grattacieli avveniristici e dai treni supersonici di Tokyo.

Ed è proprio con un viaggio che comincia la storia dell’amaro Yuntaku, vale a dire con quello che fanno addentrandosi fino all’isola di Okinawa, sul mar Cinese Orientale, e ad Aka, isoletta della stessa prefettura. 

“È qui che abbiamo scoperto il goya”, racconta Simone. “Camminando per le vie del vecchio porto di Okinawa ci siamo imbattuti in alcuni banchetti caratterizzati da insegne con disegnato sopra questo vegetale ,che somiglia a un cetriolo bitorzoluto, in camice da medico.” Il goya, pianta rampicante e tropicale della famiglia Cucurbitacee, noto in italiano anche come zucca amara - in inglese bitter melon, ha infatti forti proprietà antinfiammatorie e antiossidanti, addirittura più del nostro melograno. A Okinawa, oltre che come base della sua cucina, viene utilizzato, venduto nei banchetti e largamente consumato anche come estratto, utile per il mal di testa, i dolori mestruali e altri tipi di malanni; se consideriamo che l’isola ospita una delle popolazioni più longeve al mondo, possiamo insomma pensare che, oltre a uno stile di vita diverso, anche il goya con le sue proprietà faccia la sua parte. 

“Incuriositi, assaggiamo questo estratto e scopriamo che è amarissimo”, continua Simone. “Ci piace molto, e così portiamo alcuni semi con noi a casa, in Italia. Qui mia madre mi chiede, testualmente: ma perché non li piantiamo? Io sono scettico, l’isola di Aka è tropicale, niente a che vedere con il centro Italia. Eppure nel giardino di Sara i semi crescono, e comincio a preparare degli estratti.”

“Siamo amici da sempre e in una dalle nostre serate tra risate e relax, raccontandoci di questo bellissimo viaggio”, continua Benedetta Santinelli, “assaggiamo l’estratto e, oltre la fortissima nota amara, molto peculiare in un vegetale, percepisco qualcosa di più, qualcosa di veramente speciale. È proprio lì che, parlandone, iniziamo a pensare di utilizzarlo come base amaricante per un liquore. Sia pur in ambiti diversi, lavoriamo da molti anni per e nel mondo degli alcolici, e per noi è stato quasi matematico arrivare a questa idea. Oppure, come ci piace dire: è stata proprio l’idea ad arrivare a noi.”

Il cuore del goya è ricco di note particolari, nelle quali prevale il sentore amaro: perché non creare un amaro, dunque? L’idea si rivela un vero e proprio uovo di Colombo, e fa prendere coscienza a Benedetta e Simone del fatto che non esista, in effetti, un amaro che si ispiri a una cultura diversa da quella italiana. Considerando poi che il pasto orientale, e in particolare quello giapponese, è molto di tendenza, il passo successivo consiste nel notare come non esista un digestivo che sia in linea con il cibo, abbracciando allo stesso tempo il gusto occidentale.

“L’amaro, lo sappiamo, è un prodotto tradizionalmente italiano, mentre il sapore del goya è assolutamente riconoscibile per la popolazione giapponese”, spiega Simone. “Il feedback che abbiamo ricevuto è che Yuntaku viene molto apprezzato, e tendenzialmente chi lo beve lo richiede. Inoltre, c’è da considerare il fatto che i locali dedicati alla cucina giapponese, solitamente, preferiscono proporre prodotti di carattere asiatico: il nostro, insomma, sfonda una porta aperta.”

Un aspetto molto interessante che pare unire l’Italia a Okinawa, tuttavia, è il fatto che su questa isola a fine pasto non viene utilizzato tanto il sakè vero e proprio, quanto l’Awamori, che è molto simile a un nostro amaro per le sue caratteristiche. Si tratta di un tipo di distillato di riso infuso con delle erbe, che utilizza per la fermentazione il tipico fungo nero kōji di Okinawa. La base alcolica, ovviamente, è diversa rispetto ai nostri amari, dato che noi utilizziamo la base cerealicola, ma l’affinità di gusto è evidente e curiosa.

Tornando al goya, come si diceva, a Okinawa è tenuto in altissima considerazione, ed è l’ingrediente principale del chanpuru, piatto rappresentativo e diffusissimo a base di tofu abbinato a verdure, carne o pesce, spesso utilizzato come fonte energetica e nutritiva durante le calde estati dell’isola. Il goya è talmente popolare che c’è persino un fast food che prepara il goya burger. Esiste anche una festività apposita in cui il goya viene celebrato, che si tiene l’8 maggio di ogni anno.

“È un po’ come il pomodoro in Italia, fa veramente parte della cultura locale”, dice Benedetta. “Inevitabile, quindi, che il nostro Yuntaku generi molto interesse da quelle parti. Noi siamo tornati da poco da un altro viaggio in Giappone, e il feedback è stato incredibile. Il goya non era mai stato utilizzato all’interno di un alcolico, e questa per i giapponesi è stata una piacevole e sorprendente novità, anche perché in realtà è estremamente coerente con la loro cultura e tradizione”.

Il progetto di Benedetta e Simone parte nel momento più complicato, in pieno lockdown, quando iniziano ad adoperarsi come dei veri e propri “piccoli chimici” e a studiare gli ingredienti abbinabili alla base del goya per il loro amaro.

“Abbiamo fatto una ricerca approfondita, esplorando tra tutte quelle spezie che sono originarie, o comunque fortemente utilizzate nella cultura culinaria giapponese”, ricorda Benedetta. “Abbiamo fatto dei test, mettendo in infusione vari tipi di spezie e fiori, abbiamo effettuato delle selezioni. Tutto questo con la collaborazione e l’aiuto dagli amici Eleonora De Santis (mixologist) e Riccardo Tuttolomondo (erborista), e con il proprietario della distilleria presso cui ci appoggiamo, ovvero la storica distilleria Paolucci di Sora, in provincia di Frosinone. La loro capacità ed esperienza nel bilanciamento delle varie spezie ci ha permesso di raggiungere il risultato finale.”

Tra le botaniche utilizzate, oltre al goya, ci sono il pepe di Sichuan, il Jasmin tea, lo zenzero, la galanga – che fa parte della stessa famiglia dello zenzero - il sour cherry (dal ciliegio aspro), l’ibisco e il cardamomo.

Il goya e le altre spezie vengono infuse separatamente, con vari bilanciamenti di durata e qualità per ogni ingrediente, con un processo produttivo piuttosto complesso, che include ovviamente una parte segreta. Da notare inoltre che la percentuale di zucchero è del 15%, molto bassa rispetto a quella di altri amari.

Noi utilizziamo esclusivamente zucchero di canna: una cosa che non fa nessuno, perlomeno tra gli amari più importanti e diffusi”, sottolinea Simone. “Non è una scelta casuale, ma un preciso omaggio a Okinawa, in cui c’è un’altissima produzione di zucchero di canna, per quanto poco nota all’estero. Un prodotto tipico dell’isola, oltre al goya, è proprio lo sciroppo di zucchero di canna.”

Ma che tipo di pasto può accompagnare in maniera perfetta lo Yuntaku? Stiamo parlando del primo amaro ispirato dal Giappone, in definitiva del primo amaro ‘etnico’, per cui certamente alla fine di un pasto orientale è perfetto, facendo coincidere in maniera precisa l’idea con il gusto. È anche vero, tuttavia, che questo amaro ha note che puliscono e rinfrescano il palato anche al termine di un pasto occidentale, soprattutto a base di pesce. Come fa notare Benedetta: “Una delle caratteristiche fondamentali dello Yuntaku è che, avendo come base amaricante un vegetale verde – cosa che non succede per nessun altro amaro – quando lo beviamo possiamo notare che la nota amara, pur esistente, non lascia in bocca il tipico sentore degli altri amari, ma lascia invece un palato pulito e fresco. Questo è un elemento fondamentale nel momento in cui andiamo ad abbinarlo a un pasto delicato come il sushi, per evitare un fine pasto che copra completamente il palato. Abbiamo comunque appurato che tante persone, che in genere non bevono amaro, gradiscono invece bere Yuntaku preferendolo ad altri distillati, a prescindere da quello che hanno mangiato.”

Lo Yuntaku è stato insomma studiato per essere un fine pasto, ma è anche vero che non esistono limitazioni. Benedetta e Simone hanno tutte le intenzioni di fare degli esperimenti con le possibili modalità di utilizzo nella mixology, e in parte hanno già cominciato; del resto, nelle drink list dei locali, è molto frequente trovare cocktail anche a base di amari. I bartender interpellati si sono mostrati molto attratti e incuriositi dallo Yuntaku: la possibilità di proporre nella propria drink list un cocktail di ispirazione giapponese crea sicuramente entusiasmo. I primi esperimenti sono stati fatti in abbinamento con il sakè e con dei super classici rivisitati come il Japanese Boulevardier e lo Yuntaku-tonic. Le possibilità, insomma, sono moltissime anche in mixology, e tutte aperte.

Parlando di progetti futuri, Benedetta e Simone non hanno intenzione di fermarsi qui, e coltivano l’ambizione che lo Yuntaku rappresenti la prima di una serie di esperienze concrete, che illuminino   un nuovo concetto di amaro. Questa categoria possiede, a loro dire, tanta ricchezza dal punto di vista della tradizione, ma non è mai stata messa in discussione, come se ci si fosse un po’ adagiati sugli allori di un amaro digestivo che “si è sempre fatto così”. Tanta tradizione e nessuna innovazione, insomma, e soprattutto tanto legame con la territorialità.

Lo Yuntaku, nella visione di Benedetta e Simone, dovrebbe essere strettamente legato un concetto di apertura e inclusività più vasta, contaminando culture e donando una ricchezza che va oltre il liquido in sé. Il viaggio, insomma, è appena cominciato.

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