Capovilla, l’anima della frutta e l’interpretazione del sapore


di Marco Cremonesi 27 luglio 2021

Una giornata nella distilleria di Rosà dove è nata la leggenda di Gianni Vittorio Capovilla, l’uomo che sa cogliere l’anima ai frutti dimenticati. Una pratica antica che risale all’impero austro ungarico e che pare semplice fino a quando non scopriamo che il semplice non è affatto il facile.

CapovillaPer capire che cosa sia l’interpretazione della frutta, si può partire dall’ammissione di Gianni Vittorio Capovilla, il più grande (e premiato) dei nostri distillatori: “Tu non sai mai quale sarà il risultato di un frutto che provi, alla fine nel prodotto non troverai necessariamente il sapore che pensavi. Frutti che da freschi promettono chissà cosa, sotto l’azione enzimatica e fermentativa possono cambiare del tutto. Da non riconoscere il frutto di origine”.

E così, con mille curiosità sull”interpretazione della frutta”, trascorro una giornata nella distilleria da idillio di Rosà, a due passi da Bassano del Grappa. Assomiglia assai più a una fattoria modello che a un impianto di distillazione come ce lo aspettiamo. E intorno all’albero di gelso che, per tradizione, ogni anno viene potato dal grande vignaiolo Josko Gravner, si scopre quanto sia difficile quell’arte lenta così contrastante con lo spirito istantaneo di questi tempi. 

Si potrebbe pensare che il distillare frutti, in fondo, sia semplice: li si frulla, si lascia alla purea il tempo di fermentare, poi la si butta nell’alambicco e si mette il bicchiere all’uscita. In teoria, è proprio così. In pratica, occorre una consapevolezza che si materializza in mille dettagli e che pochi raggiungono: persino “il Capo” deve “provare e riprovare”. Lo dimostrano i tanti contenitori con etichette che poi non ritrovi sulle bottiglie: le “castagne 2002”, per esempio, almeno fino al 2021 non hanno superato il suo test severo. 

Il lavoro di Capovilla, qualche volta, parte con lui che pesta sul freno, inchioda l’automobile, scende e si tuffa in un cespuglio. Ne esce masticando la bacca intercettata al volo da quello sguardo che scintilla sotto le sopracciglia folte: “E’ una delle parti che preferisco del mio lavoro, quella che appaga la mia curiosità...”. Poi, però, non è così semplice: “Il problema - dice - è riuscire a mettere le mani su almeno 6-700 kg di frutta per avviare la sperimentazione”.

La materia prima deve essere ossessione: Capovilla guarda e rigira ogni frutto sia che provenga dai frutteti suoi, sia che venga acquistato da fornitori selezionati nei decenni.
Soprattutto, ogni varietà va capita: “E’ un po’ come per fare il vino. Ogni frutto ovviamente deve maturare in pianta, ma con il tempo ti accorgi che ha il suo momento ideale per essere trasformato. Per esempio, non sempre deve essere al massimo della maturazione”.

La fermentazione può sembrare la parte più semplice: “Zucchero non ne abbiamo mai messo un grammo. E tutti i lieviti ci arrivano con la frutta, sulla buccia. Poi, certo: l’ambiente influenza”. La fermentazione è lunga, anche quindici giorni. Persino con il succo della canna da zucchero, Capovilla impone i suoi tempi, nulla a che vedere con le fermentazioni rapidissime di altri rum. Poi ti bevi il suo Rhum Rhum che distilla lontano da Rosà, nei Caraibi francesi di Marie-Galante e capisci la differenza: un rum pulitissimo, quintessenziale come la sua frutta. Qualcuno preferisce rum più sporchi? “Io li posso capire. Ma il mio modo è quello”.

La distillazione avviene in cinque alambicchi discontinui Müller. I famosi pot stills della Foresta Nera fatti, lo dice l’azienda sul suo sito, con “sangue, sudore e lacrime”. Qualche lacrima l’ha certamente causata anche Capovilla: “Ho sconvolto la vita di Müller nonno, gli ho detto “voglio di più”, voglio un apparecchio che io possa condurre dove deve andare. Non un treno che va e si ferma sul binario”.

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La distillazione è sempre a bagnomaria e sempre doppia: “Credo sia il modo migliore per cogliere le sfumature varietali e separarle dagli elementi di disturbo”. Sfumatura varietale è concetto chiave, perché Capovilla non distilla mele o pere: nel suo mutevole listino (lui distilla solo quando la frutta è all’altezza) oggi ci sono mele Decio di Belfiore, Gravensteiner e cotogne. Le pere sono Buona Luisa, Moscatello estivo, del miele o selvatiche oltre alle Williams. E poi, una quantità di bacche, frutta povera che neanche si trova più, come le prugne selvatiche o il sorbo dell’uccellatore, ribes, corniole, prugnolo gentile, more di rovo, lamponi selvatici, rosa canina, olivello spinoso, sorbus Torminalis, fichi d’india.  

Molti pensano che Gianni Capovilla distilli frutta perché la sua storia iniziò, negli anni Settanta, vendendo macchine enologiche in Germania, la terra promessa di questo tipo di spiriti. Ma sbagliano. Primo, perché Capovilla in realtà distilla di tutto, dalla birra (Bierbrand) al vino alla canna da zucchero alla vinaccia. Persino il tabacco. In secondo luogo, spiega, “in Veneto un tempo distillavano di contrabbando con attrezzi costruiti con materiali di fortuna per il principio che possibilmente nulla va buttato se si può trasformare in qualcosa che dà conforto. Un lascito dell’Impero austro-ungarico”.

Qualora l’incontentabile Capovilla trovasse ancora alcune sostanze volatili sgradite, c’è un passaggio in più: un marchingegno da lui brevettato (Casco, Capovilla Spirits condensing system) in cui il distillato viene riscaldato ed evapora verso un cono ghiacciato che intrappola lo spiritello molesto.  

Uscito dall’alambicco, il distillato deve riposare. Non un assestamento di un paio di mesi. Parliamo di anni. In genere sei, ma tranquillamente anche il doppio, in acciaio: ovviamente il legno rilascerebbe aromi e colori che nulla hanno a che vedere con la nitida frutta di Capovilla. Perché una volta distillato, “il prodotto è franco, anche piacevole. Ma gli manca l’espressività e quello spessore che arriva soltanto con l’esterificazione degli acidi grassi”. E su quella, il tempo non fa sconti. Anche se “alcuni frutti, con il passare degli anni perdono la freschezza aromatica”.

Finita? Macché. Il distillato deve essere diluito. L’acqua è quella di due fonti che Gianni Vittorio Capovilla conosce nel bellunese. Il distillato viene portato alla gradazione voluta ma, anche qui, non è così semplice: l’acqua necessaria viene aggiunta poco a poco, una certa quantità ogni giorno. Quando finalmente tutto è finito, parte un certosino imbottigliamento: ogni etichetta è fatta a mano, legata al tappo a una a una. E a una a una viene chiusa con un sigillo prodotto in casa con ceralacca e pigmenti: i luminosi colori che chiudono ogni bottiglia sono l’immagine preferita dal maestro distillatore. I suoi spiriti sono “il colore del gusto” che evoca il frutto di origine.   

Insomma, ogni frutto ha i suoi passaggi e la sua lavorazione maturata nei decenni. Il mestiere, Capovilla lo ha però effettivamente imparato in Germania: “Andavi nelle cantine, ti esponevano i problemi e tu dovevi cercare di risolverli”. E infatti il capo dimostra sempre una monumentale conoscenza anche del vino. Però, poi, “è andata a finire che nel 1976, a una fiera, mi son comprato un alambicco da 60 litri e mi ha preso la febbre”.

Resta il fatto che la qualità ha un costo. Capovilla sembra che scacci un pensieraccio con un gesto della mano: “Se dovessi mettermi a fare un prezzo prima di provare un frutto, tutto sarebbe invendibile…”. Ma la verità è che per fare un litro di spirito di cotogne, per esempio, servono 60/70 chili di frutta: “E infatti - se la ride il Capo – per diventare ricchi si devono fare altre cose.. La ricchezza è quello che sai fare”.

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