I cacciatori del mare: l’arte antica della pesca raccontata da Roberto Moggia
Continua la nostra rubrica dedicata agli agricoltori, allevatori e pescatori che lavorano per fare in modo che ogni ospite della Velier possa mangiare in puro stile Triple A. Oggi incontriamo Roberto Moggia, titolare della Cooperativa Pescatori di Bagnara.
Un mestiere antico
Quando si tratta di mangiare pesce e di offrirlo agli ospiti in villa, in Velier c’è un un solo punto di riferimento: una piccola cooperativa genovese di pescatori autentici, e un pescatore in particolare, che risponde al nome di Roberto Moggia.
Oggi 61enne, Roberto è un pescatore “vero”, perfetto rappresentante di questo mestiere antico e affascinante. Ha iniziato fin da bambino, negli anni Sessanta, e quindi in un certo senso è come se pescasse da sempre.
Incontrare Roberto significa verificare quanto oggi la figura del pescatore professionista sia perlopiù venuta meno, anche e soprattutto per ragioni legate ai cambiamenti sociali, oltre che a quelli economici, burocratici e lavorativi.
Infatti nella sua formazione, e di conseguenza nella sua filosofia personale, è vivo il ricordo significativo di quando la pesca era un elemento che faceva parte non solo della cultura alimentare, ma proprio del sistema sociale. Lui stesso ci racconta come negli anni Sessanta i paesi del Levante ligure dove è cresciuto, e quindi nelle zone di Camogli e Nervi, erano piccoli borghi nel quali il mare era di importanza vitale, e le spiagge erano veramente il cuore di una comunità:
“Da ragazzini e da bambini la nostra piazzetta era la spiaggia, veniva vissuta proprio per tutto il giorno; c’era chi andava a pescare e al ritorno raccontava la sua giornata, c’era il maestro d’ascia che lavorava alle barche; c’era chi sistemava le reti, ecc. All’epoca quando arrivava una barca era una festa, si correva per accoglierla, farsi raccontare, andare a vedere il pesce, ecc.”
E così i bambini degli anni Sessanta come lui erano di fatto integrati in questa cultura, e potevano quindi crescere apprendendo il mestiere in modo per così dire naturale e automatico. Stando sulla spiaggia con i pescatori, i ragazzini sapevano quando prendere i granchi, imparavamo a riparare reti o a riconoscere i venti. Poi c’era il fascino del mistero, dell’avventura, perché certo sul mestiere del pescatore si fantasticava anche un po’… era insomma la migliore palestra per chi aveva questa passione e voleva fare quel mestiere:
“Sono diventato pescatore professionista a 18 anni, mettendomi in regola e aprendo l’attività. Ma già a 12 anni andavo a pescare per conto mio. All’epoca mi legarono anche la barca per impedirmi di andare a pescare e costringermi invece a studiare… Senza la pesca io non potrei vivere. Per i pescatori è così: il primo pensiero al mattino è com’è il tempo, com’è oggi il mare? La testa è sempre lì.”
Come è cambiato il mestiere nel nuovo millennio
Per chi lavora in questa zona della Liguria, le cose sono però molto cambiate nei decenni. Roberto ha assistito alle conseguenze del boom economico, all’industrializzazione che ha modificato non solo il mercato ma anche il mare. E per spiegarci queste differenze tra passato e presente ci fa un esempio molto chiaro:
“Quando c’è stato il lockdown in mare c’eravamo solo noi pescatori e le forze dell’ordine, e in questa pace la pesca sembrava tornata a quarant’anni fa. Bisogna cioè considerare che adesso il mare è molto trafficato, e quando c’è tanta confusione i pesci scappano. Il traffico e l’inquinamento, dal nostro punto di vista, non influiscono tanto sulla qualità del pesce, ma soprattutto sulla quantità, perché i pesci si autoregolano e quindi semplicemente, se c’è confusione e inquinamento, vanno via.”
Tra i cambiamenti degli ultimi tempi che però i pescatori soffrono maggiormente, secondo Moggia c’è quello della burocrazia, che in molti casi crea problemi soprattutto perché non sembra tener conto delle piccole realtà economiche, che dovrebbero invece essere proprio le più tutelate.
Con la sua barca di soli sette metri e sistemi di pesca tradizionali, infatti, Moggia come molti suoi colleghi si sente oggi subissato “da una marea di leggi, di vincoli, di divieti”, come ci dice lui stesso. Un problema che ha comportato anche l’allontanamento dei giovani da questo mestiere, perché “il lavoro è diventato molto meno bello”.
Certo, il discorso che riguarda le normative è complesso. Se per esempio si considera la nascita del parco di Portofino - che, come dice Moggia stesso “qualcosa di buono ha fatto” - va riconosciuto che anche in questo caso le novità comportano pro e contro:
“Per esempio siamo tornati a prendere delle cernie che non prendevamo da anni. Secondo me quindi i parchi devono esistere, ma devono anche essere regolamentati nel modo giusto; a livello di lavoro attualmente noi siamo anche un po’ penalizzati dall’esistenza del parco, perché per esempio io che abito a Nervi non posso pescare nell’area protetta di Portofino, a differenza di quelli di Camogli che ci possono andare”.
Il problema però forse più importante degli ultimi tempi è che, a fronte di queste norme maggiormente vincolanti per i pescatori, non esiste poi per il consumatore la possibilità di riconoscere con chiarezza la provenienza del pescato che porterà sulla propria tavola. Così accade che i pescatori come Moggia, che portano sul mercato pesci pescati a chilometro zero, non possono usufruire di un’identificazione che accerti appunto la provenienza: sui banchi di un negozio, il loro pescato è indicato come “proveniente dal Mediterraneo” senza quindi poter essere di fatto distinto da quello arriva dalla Tunisia o dal Marocco.
L’alternativa è quella adottata appunto dalla Cooperativa Pescatori di Bagnara, e cioè creare un proprio mercato alternativo e artigianale, che in qualche modo anch’esso riporta a tradizioni di una volta:
"Noi abbiamo un nostro piccolo punto vendita. Prima arrivavamo in spiaggia e le persone che abitavano in zona venivano e compravano direttamente lì. Adesso abbiamo dirottato questa vendita nel negozio. Ma naturalmente noi non siamo come un supermercato, quindi vendiamo in base al pescato, alla stagionalità e anche alla singola giornata: il nostro cliente lo sa, ed è quello che si adegua, che entra e chiede ‘cosa c’è oggi?’, e non chi cerca, non so, la sogliola tutto l’anno.”
Ma il mondo del pesce è questo e in verità qui c’è anche il “suo bello”, perché l’incertezza del pescato giornaliero offre anche numerosi vantaggi ai consumatori, sia per quel che riguarda la qualità e la freschezza dei prodotti, sia per la stessa varietà. Questo perché, quando è il mare a decidere, entrare in pescheria significa poter trovare e scoprire anche molto pesce “dimenticato”, ovvero quello meno conosciuto ma comunque di qualità. In molti casi si tratta di pesci difficili da maneggiare, da pulire o trattare prima della cottura, e che appunto per questa ragione sono andati via via a scemare dalla tavola del consumatore medio. Ma anche in questi casi viene in soccorso il mestiere di chi il pesce lo conosce meglio:
“In questi casi puliamo noi stessi del pesce che per molti è difficile da pulire o sfilettare. Si tratta di pesci che sono un po’ usciti dalle tavole, ma che sono sempre esistiti, si sono sempre mangiati: riproponendoli magari già puliti, noi li facciamo scoprire a persone che spesso non avevano nemmeno idea della loro esistenza. Per esempio il sugarello, un pesce azzurro buonissimo che sfilettato per i bambini è un’ottima alternativa alla classica sogliola; oppure il labride o il pesce ciliegia o il tordo d’alga… A volte ci stupiamo, perché vediamo che la gente non li ha mai nemmeno sentiti nominare e invece sono sempre esistiti”.
tecniche di pesca
Roberto Moggia adopera le reti che si usavano quaranta o cinquant’anni fa, sempre nel rispetto del mare. Si tratta di classiche reti da posta, ovvero quelle che vengono calate solitamente la sera e poi salpate al mattino o al pomeriggio, paragonabili a lunghi recinti di circa 1000 o 1500 metri. In base alla stagionalità e al pesce che si vuole catturare, si cambiano le reti o la zona di mare. A variare è solo la maglia, che aumenta e diminuisce in base alle dimensioni:
“Quando per esempio è il momento delle triglie in estate si va con determinate reti in certe zone, quando è invece il momento del nasello si va con altri tipi di rete e ci si muove su altri fondali. Per pesci come triglie o naselli le reti si lasciano in mare solo 3 o 4 ore, agli albori, come diciamo noi, cioè all’alba o al tramonto…”
Quello di Roberto Moggia è dunque un lavoro che ha dietro anche molto artigianato, per quel che riguarda gli attrezzi che vengono adoperati. La piccola pesca è fatta infatti con attrezzature che il pescatore deve conoscere bene, anche perché è lui stesso a occuparsi della loro manutenzione, quando non della loro stessa fabbricazione.
“Oltre alle reti da posta, in certi periodi dell’anno magari andiamo anche con dei palamiti, ami e lenze, come quando per esempio è il periodo dei tonnetti, dei moniti, della palamite, e allora si pesca proprio a vista: si vede dove sono i gabbiani che mangiano le acciughe, si prende qualche acciuga viva e la si usa come esca. Però queste sono pesche che durano giusto un mese all’anno, sperando nella stagione… per esempio quest’anno questi tipi di pesci non sono praticamente passati, per cui non ci siamo potuti andare.”
Si tratta, come si vede, di un tipo di pesca molto mirata, proprio come quella di una volta. E proprio per questo è anche più rispettosa dell’ambiente. La rete viene posata con delicatezza, per cui non intacca l’ambiente, estirpando per esempio la posidonia o il novellame; anche perché quelle di cui parliamo sono reti che non si lasciano assolutamente sul fondo, né si devono perdere; la mentalità del vero pescatore è questa:
“Io dico sempre che noi siamo un po’ come i cacciatori del mare. È un lavoro antico come la caccia, ma per farlo bene bisogna affidarsi alla natura. E la natura va rispettata, non si può massacrare.”