Haiti, il mondo perduto


di Maurizio Maestrelli 27 giugno 2023

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Rubiamo il titolo a uno dei romanzi di Arthur Conan Doyle per provare a raccontare i giorni vissuti ad Haiti sulle spalle di Luca Gargano e sulle tracce del clairin, il rum locale che qui si produce ancora come due secoli fa. Perché Haiti non è semplicemente un viaggio in un luogo. È un viaggio nel tempo…

L’altro giorno sono entrato nel supermercato sotto casa. Sapevo che l’avrei incontrato. Ma non ci potevo fare nulla. Il settore frutta e verdura è sempre all’inizio del percorso obbligato che porta alle casse. Dove poi trovi bevande gassate, cioccolato e, spesso, profilattici. Perché in fondo la vita è come te la spiegava sempre tua madre. “Prima il dovere e poi il piacere”.

Così schivo insalate già lavate e insacchettate, albicocche tanto perfette quanto insapori ma poi non ci riesco. Mi fermo e lo guardo. Ci guardiamo. Io reduce da Haiti e lui dall’interno di un sacchetto che lo imprigiona.

Un mango.

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Mi viene un po’ di magone, o di mangone se mi perdonate la battuta idiota, che ci posso fare. E avrei pure mezza intenzione di liberarlo ma poi penso che in fondo è nato in cattività e non conosce i suoi parenti liberi, che se ne stanno a penzolare dagli alberi in tutta la loro alterigia.

Come i testicoli dei tori che ancora oggi, nelle zone più isolate di Haiti, trasportano la canna da zucchero appena tagliata a mano verso le guildive, le microdistillerie che sembrano uscire da un passato remoto fatto di fuochi accesi, luce che filtra a fatica dall’esterno, liquido incolore che zampilla in improbabili contenitori di plastica dal passato misterioso, offerti poi con sguardo malizioso al visitatore di passaggio.

Ebbene sì, sono rientrato da Haiti da poco più di un paio di settimane e solo ora inizio a capire cosa ho vissuto e il tipo di viaggio che è stato. Chi dice che sente la mancanza di Haiti non appena rimesso piede in Italia mente. Semplicemente perché Haiti la devi metabolizzare; non è solo un viaggio misurabile in distanza geografica, lo è in distanza temporale. È un salto all’indietro insomma, spesso in più tappe. La prima è quella che, nel nostro caso, ci ha portato in Repubblica Dominicana e, fin lì, niente da segnalare. Cambia il clima, cambiano i colori, anche quelli della gente ma non solo, cambiano i sapori del cibo ma in fondo è una vacanza in un ambiente esotico nel senso di differente da quello che siamo abituati a vivere. Il discorso è diverso quando si arriva a Port au Prince, la capitale haitiana della quale si sente parlare esclusivamente in termini negativi: la situazione politica incerta, la criminalità, il terremoto, la povertà endemica. Tutto vero, dallo schermo di un televisore e dai divani delle nostre case. Solo un aspetto per chi mette piede invece sul suolo dell’unica realtà coloniale dove una rivoluzione fatta da schiavi e guidata da liberti ha avuto successo. Un successo pagato a caro prezzo e un prezzo che Haiti sta ancora pagando. 

Perdonate la breve digressione storica, la pedanteria a volte lo so mi appartiene ma in questo caso è giustificata. Haiti è parte dell’isola un tempo chiamata Hispaniola. Qui Colombo ha messo piede la prima volta che attraversò l’oceano in cerca del favoloso Cipango, l’attuale Giappone. E qui arrivarono presto i primi coloni, francesi e spagnoli, che fecero ciò che fecero gli europei in tutto il nuovo mondo. Eliminazione fisica degli abitanti dell’isola, indigeni taino e arauachi, tramite lavori forzati e malattie importate, successiva sostituzione della forza lavoro con schiavi fatti giungere dall’Africa. Nel 1790 in quella che era una delle colonie francesi più ricche, forse proprio la più ricca, si contavano poco più di mezzo milione di abitanti, appena trentamila dei quali bianchi europei. Piantagioni di cacao, caffè e canna da zucchero, ma anche di cotone e di indaco, facevano di Haiti, nome che sembra derivare dalla parola arauachi “Ayti” ovvero aspro, il gioiello della corona francese. Corona che tuttavia in quegli anni stava traballando. 

Il 1789 è l’anno della Rivoluzione Francese, il 1791 è quello nel quale scoppiano le prime rivolte di schiavi ad Haiti. La lotta di liberazione conobbe alti e bassi, tentativi di trattativa e scontri a fuoco ma, per evitare eccessiva pedanteria storica, mi limito a citare il 1793, l’anno in cui un comandante dei ribelli annunciò l’applicazione della dichiarazione francese dei diritti dell’uomo anche sull’isola affrancando di fatto gli schiavi e segnando così una svolta storica in quanto era la prima volta che in un territorio delle Americhe la schiavitù, fino ad allora base del sistema sociale, veniva abolita e infine il 1805, l’anno nel quale fu promulgata la Costituzione haitiana nella quale si proclamava che “la schiavitù è abolita per sempre” e che “devono obbligatoriamente cessare tutte le distinzioni di colore tra membri della medesima famiglia”. Una Costituzione che segnò una svolta epocale, basti pensare che gli Stati Uniti fecero altrettanto solo nel 1865, ma una Costituzione che rappresentò uno schiaffo a piena mano nei confronti delle potenze europee colonialiste che, per contrappasso e per il timore che da Haiti il fuoco della ribellione si espandesse in altri territori dove lo schiavismo era la base dell’economia capitalista, iniziarono da quel momento a isolare sempre di più il Paese, soffocandone il commercio e, di conseguenza, il benessere degli abitanti.

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Questo detto perché non si può capire Haiti e non si può capire il clairin se non si capisce cosa ha significato la rivoluzione haitiana e le sue conseguenze. La storia travagliata di questo Paese, tra calamità naturali e fragilità politica, è una storia dura, aspra quanto il suo territorio ma è una storia di una unicità assoluta.

Sì, Haiti è un unicum e per dimostrarlo basti dire che se in tutti i Caraibi le distillerie di rum si aggirano attorno alla cinquantina, solo ad Haiti ve ne sono circa cinquecento. Perché la distilleria haitiana, mai toccata dai tentacoli delle multinazionali e comunque sempre tagliata fuori dagli scambi commerciali è rimasta delle dimensioni di quelle che da noi era un tempo il panettiere o il macellaio di paese. 

Le guildive, questo il loro nome, sono microdistillerie a conduzione familiare, spesso seminascoste tra gli alberi, irraggiungibili, come quasi qualunque cosa da queste parti, se non a costo di viaggi rocamboleschi su strade che più che sterrate sembrano bombardate di precisione da katjuša di sovietica memoria. Se ne varca la soglia come fosse l’antro di un alchimista, sotto un tetto spesso di lamiera e se ne percepisce subito l’odore, che è un misto di fermentazione e di fumo di fuoco a legna. L’uomo, ragazzo o anziano, che si incontra accoglie senza problemi, solo forse un po’ stupito dal fatto che qualcuno sia arrivato fin lì per vedere, e fa assaggiare volentieri il liquido trasparente, dal fresco sapore di canna da zucchero e dalla immediatamente successiva scia di fuoco delizioso che si fa strada in fondo alla gola. Non ci sono prenotazioni, non c’è orario di visita, né incontri con uffici stampa o marketing. Il clairin è cibo liquido, è sussistenza e forse scampoli di felicità, di comunione e di lusso per persone che, sembrano, non aver niente e che forse hanno invece tutto. O quasi. Nei villaggi, spesso semplici aggregazioni di case, si cucina su fiamma viva, si va a letto con il buio, si allevano animali da cortile e si raccolgono i frutti che la terra offre, ci si lava nei rii che attraversano le strade e non viceversa. E si beve il clairin.

È un po’ scioccante per chi arriva da Milano e comincia ad agitarsi di prima mattina se la persona davanti a noi al bar beve l’espresso in tre sorsi invece che in uno. Eppure non credo di aver visto persone più sorridenti che su queste strade, in questi villaggi. I bambini soprattutto, che sgranano gli occhi davanti a dei giochi per i quali i nostri probabilmente chiamerebbero il Telefono Azzurro.

Perdonate, rischio di perdere il filo. Accettate però il fatto che lo scopo del viaggio era quello di visitare alcune delle principali distillerie di Haiti dei cui rum possiamo oggi godere anche in Italia. Ma è tutta colpa di Gargano, che i viaggi per i giornalisti li organizza come fossero delle immersioni nel blu del mare. O dello Stige, come ammetto di aver pensato, quando a notte fonda e sotto un diluvio torrenziale, ci siamo trovati la strada bloccata da alcuni camion bloccati nel fango e abbiamo dovuto fare inversione per raggiungere un posto alternativo dove dormire o come quando ho dovuto mangiare qualche etto di polvere abbarbicato sul sellino posteriore di una moto lanciata a tutta velocità da un’entusiasta pilota locale mentre dentro di me ripetevo, come un mantra ossessivo, l’immortale verso di Ungaretti: “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”.

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Michel Sajous ha la faccia di uno che potrebbe fare l’impiegato del catasto. E invece produce un clairin elegante come un giro di valzer, profumatissimo, setoso, immediatamente e senza tentennamenti riconducibile alla materia prima. È anche uno che quando gli fai i complimenti per il suo clairin ti guarda negli occhi e ti risponde: “cerco di fare del mio meglio”. E poi, sornione: “e quando si fa del proprio meglio il cielo è il limite”.

Ha iniziato venticinque anni fa, riprendendo un’attività che aveva il padre e trasformandola da hobby in lavoro a tempo pieno perché quando stava a Port au Prince si svegliava la mattina e sentiva il profumo del succo di canna. Già, la canna. 

L’isolamento di cui ha goduto, o ha sofferto dipende dai punti di vista, Haiti ha fatto sì che le canne da zucchero dell’isola non fossero mai “aggiustate” per aumentarne il contenuto zuccherino o le dimensioni e Sajous ha riconvertito tutta la sua coltivazione nella varietà cristalline, giunta sull’isola chissà quando, di esile spessore, minore succo da estrarre ma di elevato grado zuccherino. Una varietà insomma che non hai conosciuto il “matrimonio forzato” dell’ibridazione. Così è e così è sempre stata. La raccoglie e ne estrae subito il succo, la fermentazione parte naturalmente, alimentata dai lieviti selvatici, si distilla una volta sola, tagliando teste e code, e poi si imbottiglia. Sempre ad Haiti. Non nella distilleria di Sajous ma in quella di Port au Prince di proprietà della famiglia Linge per nessun altro motivo se non quello che, considerate la strade e i tempi di trasporto, spostare bottiglie lungo il percorso farebbe fare al vetro lo stesso destino dei cavalleggeri inglesi che a Balaklava attaccarono frontalmente l’artiglieria russa.

Poco distante, si fa per dire perché ad Haiti tempo e distanze hanno un valore diverso da quello a cui si è abituati, si trova invece la distilleria Le Rocher, il cui nome è ricavato dal versetto 24-27 del Vangelo secondo Matteo: “Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia”. Qui incontriamo Béthel Romélus, un bell’uomo alto e dal fisico asciutto, e dalle parole misurate. Ha iniziato a produrre il suo clairin nel 1995, riprendendo anch’egli una tradizione famigliare perché già suo nonno possedeva una guildive. A dimostrazione che il clairin non è un monoprodotto come si potrebbe forse pensare quello di Béthel Romélus nasce partendo dallo sciroppo, ossia succo di canna da zucchero portato a ebollizione, al quale si aggiunge la vinasse, o la vindange come la chiamano in creolo, ovvero il residuo non alcolico che rimane nel pot still al termine della distillazione precedente. Il suo clairin appare più ricco, più intenso e più complesso, più un tango che un valzer ma fare paragoni ha poco senso.

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È più importante capire e mandare a memoria il fatto che di clairin si deve parlare al plurale e che terroir, canna da zucchero, lieviti e tradizione o scelta produttiva danno vita a rum molto diversi tra loro. Haiti da questo punto di vista, beh in realtà non solo da questo punto di vista, è anarchica. Se i distillatori delle guildive traggono il rum da ciò che hanno, altrettanto sebbene in maniera più evoluta perché possono fare delle scelte, fanno i distillatori più noti.

Noti perché Gargano, da Indiana Jones dei distillati di canna qual è, è andato a scovare con tutta la caparbietà che chi lo conosce sa, ma anche con tutta la delicatezza di chi non vuole alterare alcunché. Perché le antiche ricchezze di quest’isola puoi andarle a cercare, ma poi le devi rispettare. Se le vuoi godere appieno.

Così come devi rispettare la cucina haitiana che sembra povera e invece è ricca. Priva di giochi di prestigio o di trucchi spesso imbarazzanti, valorizza le materie prime che la natura offre: dal platano fritto, croccante e asciutto, al mais moulen, una sorta di polenta di mais più granulosa, che accompagna il griot (carni speziate) di maiale o il favoloso lambi, un mollusco di grosse dimensioni che abita conchiglie da collezione che qui si cucina in vari modi, dai funghi locali Djon Djon uniti al riso che è alimento quotidiano.

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Nei caotici mercati haitiani si vende di tutto, su bancarelle e semplici teli stesi in terra, puoi trovare manghi e mais, cardini per porte e materassi, abiti e rapadou, grossi cilindri di zucchero di canna che si producono ancora nei villaggi trasformando il succo in sciroppo, lasciandolo asciugare al sole e confezionandolo avvolto in foglie di qualche palma. Il flusso di persone è paragonabile alla metropolitana di Tokyo nelle ore di punta, ma è più colorato, più rumoroso e condito da capre che gironzolano, uomini che spostano carriole o fendono la folla a bordo di moto e donne che trasportano sulla testa, in miracoloso equilibrio, qualsiasi cosa tranne il marito. Incredibilmente, nessuno va fuori di testa.

Haiti è ancora molto altro, personalmente ho tutta una serie di flashback che custodisco, alcuni con tale gelosia che faccio pure un po’ fatica a condividerli perché ho la certezza di non essere in grado di trasferirli a chi mi sta ancora leggendo nella loro fulgida intensità e completezza. Il canto dei bambini di una scuola che mi ha fatto scricchiolare la durezza e il cinismo di uomo occidentale contemporaneo, quel canto spero di sentirlo ancora una volta in paradiso o almeno spero che il volume sia abbastanza alto per essere ascoltato anche dall’inferno, il sorriso e la cucina di Djina Linge, custode e sacerdotessa delle tradizioni gastronomiche isolane, e moglie di Bertie, titolare della Distillerie du Port au Prince dove nel 2019 dall’incontro tra il figlio Herbert, Luca Gargano e Vittorio Capovilla è ripartita nella capitale haitiana la produzione di un rum a distillazione discontinua. Quel Providence First Drops che ha accompagnato, e forse anche guidato, tutte queste mie parole.

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E, ancora, i pescatori di Ile la Vache su barche che sembrano sbucate fuori dal Sandokan televisivo che furoreggiò in Italia negli Anni Settanta (chi c’era se lo ricorda e chi non c’era se lo vada a vedere) e quelli di Cayalo che sfidano le onde su canoe letteralmente ricavate scavando e modellando un tronco d’albero, la partita di calcio del campionato haitiano nella quale non tutti i giocatori portano le scarpe con i tacchetti e capita che a fare un’invasione di campo sia una pecora che decide che proprio di lì doveva passare, gli alberi di anacardi dei quali si può mangiare anche il frutto e non solo il seme, le bambine che vanno a scuola su strade di fango ma vestite con la divisa d’ordinanza e i capelli acconciati di nastri con una tale meticolosità che forse, chissà, da qualche parte nella foresta si nascondono dei coiffeur parigini, la canna da zucchero mescolata ai campi di mais e agli alberi da frutta, che tanto qui si taglia tutto a mano e solo ciò che è pronto per essere trasformato, mantenendo un ecosistema che è fondamentalmente come la natura l’ha creato. Non l’uomo.

Haiti non ti manca subito. Troppa intensità, troppa umanità, troppo di tutto. Cuore e cervello non possono capire subito. Però da questo terrazzo milanese, con l’aria attraversata da sirene d’ambulanza o polizia, aerei che ti passano sulla testa e il dubbio se stasera si ordina da Glovo o da Deliveroo perché il tempo per cucinare forse manca. Ecco Haiti sì, ti manca.