Intervista a Salvatore Calabrese
Dom Costa incontra Salvatore Calabrese
Un’intensa intervista di Dom Costa a Salvatore «The Maestro» Calabrese, uno dei bartender più celebrati al mondo, un’eccellenza italiana che ha scritto pagine importanti della storia di questa arte.
Dom Costa – Andiamo un po’ indietro nel tempo. Ricordi quando ci siamo incontrati la prima volta?
Salvatore Calabrese – Sarà stato più di 20 anni fa.
D.C. – Sì. A Las Vegas, in sala c’era anche il sindaco, con Francesco Lafranconi che ci faceva da Cicerone e che ci disse: «Ricordate che quello che succede a Vegas rimane a Vegas. E infatti chi si ricorda più niente…».
Ma andiamo ancora più indietro nel tempo, all’inizio della tua carriera. C’è una foto di te bambino che versa da due bottiglie contemporaneamente. Chi ti aveva insegnato a farlo?
S.C. – Non lo so più: in quella foto avevo 12 anni, ed era già la mia seconda estate di lavoro. Mi ricordo perfettamente che questi due fratelli mi avevano chiesto due bibite e a me sembrò naturale versarle insieme, per accorciare i tempi, perché in quel posto dovevo fare in fretta. Ero un ragazzo abbastanza sveglio e forse più maturo della mia età. Quella foto è stata fatta dal padre di questi due ragazzi, eravamo amici, andavamo a giocare giù in spiaggia. Li portavo a conoscere i posti più carini della Costiera Amalfitana.
D.C. – Di quell’epoca tu nomini sempre questo signor Raffaello. È stato il tuo mentore, fonte di ispirazione. Ci racconti chi era? Io lo immagino come un uomo alto tre metri…
S.C. – Io lo ricordo come il personaggio di Humphrey Bogart in Casablanca. Parlava diverse lingue, aveva viaggiato in tutto il mondo, era un grande donnaiolo. Apparteneva a quella cultura che metteva l’ospitalità avanti a tutto. Vedi, si parla tanto della cosiddetta Dolce Vita degli anni Sessanta. E io posso dire che l’ho vissuto, quel clima, quel modo di vivere. Mi ricordo i clienti che venivano al bar dopo il mare, vestiti con eleganza per l’aperitivo. È stato all’interno di questo tipo di cultura che signor Raffaello mi ha fatto da mentore. Mi ha insegnato molte cose, a cominciare proprio dall’arte dell’ospitalità. Te l’ho mai raccontata la storia del pesce? Quella è stata proprio una grande lezione…
D.C. – Raccontacela.
S.C. – Ogni mattina mi svegliavo alle cinque e mezza e andavo all’hotel Reginna, a Maiori, dove lavoravo. Il mio primo compito era tagliare il pane per la colazione. E già lì imparavo la precisione, perché dovevo fare ogni fetta dello stesso identico spessore delle altre. Il secondo compito era accendere la macchina del caffè e pulire il bar. Poi, quando la macchina era salita a pressione, facevo il caffè e lo portavo allo chef. Entravo in cucina e lo salutavo sempre con una certa energia, diciamo quell’entusiasmo tipico del ragazzino. Ma lo chef non rispondeva mai al mio buongiorno, prendeva il caffè senza nemmeno guardarmi, restando sempre con gli occhi bassi. Un giorno entro, lo chef non era seduto al solito posto, stava pulendo un pesce. Io lo saluto come sempre e lui, all’improvviso, afferra il pesce e me lo lancia addosso! Resto stupito, naturalmente, e per tutta la mattina mi chiedo cosa avevo fatto di male, per meritarmi una cosa del genere. Quando poi arrivò il signor Raffaello, gli raccontai tutto ed è stato allora che lui mi ha insegnato una delle cose che mi sono rimaste più impresse: «Non tutti vogliono che gli porti il sole», mi disse. «Devi prima capire il personaggio. Se vuole il sole, gli porti il sole. Ma se vuole essere lasciato in pace, lascialo in pace». Questo è il cuore della vera ospitalità: non si tratta di offrire quello che piace a noi, quello che noi crediamo sia buono o bello, ma bisogna invece capire quello che desidera il tuo ospite, anche se è diverso da quello che piace a te, e cercare di accontentarlo.
D.C. – E cos’altro ti ha insegnato, il signor Raffaello?
S.C. – Molte cose, a cominciare dal modo giusto di shakerare. Diceva di fare «le tre scale», cioè di agitare lo shaker prima più in alto, poi a metà e poi più in basso, con un movimento rotatorio e non martellante. Vedo ancora molti barman che fanno questi movimenti martellanti, che rompono il ghiaccio. Con le «tre scale», invece, il risultato è tutto un altro…
D.C. – Adesso spostiamoci all’inizio degli anni Ottanta e andiamo a Londra. Hai fatto il viaggio al contrario, rispetto a quello che avrebbero fatto tutti, in quel periodo. Cioè sei andato dalla tua bella Costiera Amalfitana alla città grigia e vittoriana. Perché?
S.C. – Perché avevo il mio migliore amico Gerardo Vitagliano che era in Inghilterra. Andavo da lui spesso, quando ero molto giovane. Per anni ho fatto l’inverno all’estero e l’estate in Costiera. Un giorno mia moglie trova questo annuncio del Duke's Bar, e io vado per il colloquio. Anche se il mio curriculum era troppo legato ai ristoranti, io ero molto convincente e chiesi un’opportunità. Era il Natale del 1982; il 23 dicembre mi chiamano dal Duke's Bar e mi dicono che purtroppo hanno trovato un altro, arrivederci e grazie. Insomma niente, mi dico. Mi tocca il Natale a casa, senza lavoro. Passo quei giorni pensando al mio futuro. Avevo un figlio, un mutuo. Poi succede l’inaspettato, ovvero che questo nuovo barman ha un incidente con un cliente, gli dà quasi fuoco con un flambé, perciò la sua carriera possiamo dire che va in fumo subito, e il 27 dicembre chiamano me. È così che ho cominciato. Il Duke's Bar all’epoca era piccolo, con un piccolo bancone. Potevano entrare non più di 15-20 persone…
D.C. – Quindi un locale in cui si bevevano i tipici drink dell’epoca…
S.C. – Non era per niente conosciuto, in quegli anni. La notorietà è iniziata quando ho avuto l’idea di “vendere la Storia nel bicchiere”. Tutti ne parlarono, all’epoca, di questo barman pazzo che “vendeva la Storia nel bicchiere”. All’inizio il direttore e il manager mi mandarono a quel paese, dicendomi che non avrei mai venduto questa idea. Invece il proprietario mi diede l’ok per portarla avanti, e fu un successo. Diciamo che non fu facile spuntarla.
D.C. – Facciamo un altro passo avanti. Andiamo all’inizio degli anni Novanta, in una Londra dove esistevano ancora pochi bar, la maggior parte negli hotel. La gente di tradizione andava solo al pub, ed è perciò in questi anni che nasce una nuova era del bartending. Sono gli anni in cui tu hai creato il Breakfast Martini. Di’ la verità, mica lo hai inventato la mattina a colazione?
S.C. – No, no. Tu mi dovresti vedere, la mattina. L’unica cosa che voglio è il caffè. Mia moglie mi invitava a fare colazione all’inglese, ma io volevo sempre e solo caffè. Poi un giorno – era il ’96 – mia moglie mi diede un toast con la marmellata e io lo mangiai. Dopo, non feci nient’altro che portarmi la marmellata al lavoro. Mi spiego. Erano anni in cui si usavano molti prodotti chimici e artificiali, mentre io già lavoravo per far sì che tutto fosse non solo organic ma anche fresco. E quel gusto di mattina mi colpì, pensai a quel dolce e quell’amaro insieme, e mi venne in mente di usarlo per un cocktail. Ovviamente la marmellata era inglese e quindi ebbi l’idea che per coerenza tutto dovesse essere inglese. Perciò, il gin. Poi ho usato il Cointreau, e non lo zucchero. Una goccia di succo di limone, e la marmellata… Se devo dire, secondo me la fortuna di questo cocktail è stato il nome.
D.C. – E il Direct Martini? È arrivato quasi come un uragano. Alcuni lo chiamano anche Naked Martini. C’è in giro la leggenda secondo cui gli americani, arrivando a Londra, corressero da te a berlo prima ancora di andare in albergo.
S.C. – Quello l’ho creato nel 1985 e, in questo caso, l’idea è nata per soddisfare un cliente. Come accennavo, la mia filosofia nel lavoro è dare al cliente quello che il cliente vuole. E quell’anno c’era questo cliente americano, che io all’epoca non sapevo chi fosse, che per un certo periodo veniva al bar ogni mattina, e poi al pomeriggio tornava e mi chiedeva due Dry Martini, uno dopo l’altro. E ogni volta lo criticava, cioè ogni volta assaggiava e diceva «Questo è abbastanza freddo, ma non abbastanza secco», oppure al contrario: «Questo è abbastanza secco, ma non abbastanza freddo». Ogni sera così. Era una cosa che mi faceva venire il mal di testa: mi chiedevo come fare per accontentarlo, e cioè come riuscire a creare un Martini che fosse sia abbastanza secco che abbastanza freddo. Fino a che, dopo quattro giorni, ebbi l’idea di partenza e cominciai a lavorarci. Il quinto giorno, il cliente mi fa la solita richiesta, e io gli servo il mio Martini. Al primo sorso non dice niente, al secondo nemmeno, finisce il primo bicchiere e mi chiede il secondo. Quindi se ne va senza dire niente, per la prima volta non fa nessuna osservazione. Qualche ora dopo torna e si presenta. Era un giornalista molto famoso, Stanton Delaplane. E così comincia la storia del mio Martini, con Delaplane che lo definisce il migliore del mondo. Da lì nasce tutto. Per esempio è in quel periodo che ebbi anche l’idea di servire il Martini a tavola.
D.C. – Parliamo di oggi. E sul bartending di oggi ti faccio una domanda secca. Non pensi che i bartender oggi si prendano un po’ troppo sul serio, al punto da dimenticare che hanno di fronte un cliente?
S.C. – Tutti possiamo diventare bravi miscelatori, ma questo non vuol dire che puoi chiamarti bartender. Per come la vedo io, il vero bartender deve saper maneggiare due arti: quella della miscelazione ma anche quella dell’ospitalità. Sono come le due mani: una sola non basta. Senza l’arte dell’ospitalità è come lavorare con una mano sola. Perché il bar è un teatro: lo shaker è il nostro strumento musicale, e quando lo suoni devi usare il cuore, non solo mostrare maestria. Devi far capire al cliente che il lavoro è per lui, non per te, non è esibizionismo. Per me è importante capire questo, cioè il fatto che l’ospitalità è fondamentale: l’ho imparato per la prima volta prendendomi letteralmente un pesce in faccia. È grazie a questa filosofia che questo lavoro mi ha dato tante soddisfazioni, è così che nella mia vita sono arrivato a servire presidenti USA, Fidel Castro, Nelson Mandela, Robert De Niro… Ci sono riuscito perché il mio obiettivo è sempre stato far stare bene il cliente, non solo farli bere bene, ma farli sentire bene, in una bella atmosfera. Il cocktail è solo una parte del nostro mestiere.
D.C. – E a proposito della tua esperienza con tanti e tali clienti, ci racconti qual è stata la richiesta più strana che ti hanno fatto?
S.C. – Beh, ce ne sarebbero tante. Forse la scena più divertente è quella che mi è successa negli anni Ottanta. In quel periodo nascevano questi nuovi cocktail, che io non facevo. E così una sera una ragazza arrivò al bancone e mi chiese un Orgasm, che io non avevo nemmeno mai sentito nominare. Per cui insomma rimasi un po’ perplesso di fronte a questa richiesta di un “orgasm”, e prima che lei mi spiegasse che si trattava di un cocktail le dissi qualcosa come: «Scusa, ma adesso non posso, sto lavorando…»
D.C. – Hai mai rifiutato una richiesta?
S.C. – Rifiutare una richiesta non fa parte della mia filosofia, ma una volta è successo. L’unica volta che l’ho fatto è stata quando un cliente mi ha chiesto un cognac del 1811 con una Coca-Cola. Gli tolsi il bicchiere di mano, lasciandolo perplesso. È vero che ciò che il cliente vuole bisogna darglielo, ma c’è un limite.
D.C. – Tu sei l’unico al mondo ad aver fatto un cocktail a 200 all’ora, in macchina con Michael Schumacher. Te la ricordi, questa?
S.C. – E come potrei dimenticarla? L’idea era di mettere insieme il miglior barman e il miglior pilota del mondo, per uno spot. Cioè io avrei dovuto preparare un cocktail seduto in un’auto lanciata in pista dal più grande pilota di Formula 1 di quegli anni. Lo scopo del video era comunicare che bere e guidare sono due attività che non vanno d’accordo. Era però un gioco e quindi per me era una sfida divertente. La presi molto seriamente, tanto che mi misi in testa non solo di riuscire a fare il cocktail, ma anche di farlo senza sporcarmi. Non facemmo prove, prima di girare. Avevo un vassoio, la cintura di sicurezza, e mi ricordo che non vedevo niente. L’unica era cercare di lavorare quando l’auto prendeva il rettilineo. Ma Schumacher naturalmente lo sa e mi fa uno scherzo. Nel rettilineo mi grida: «Attento, c’è un coniglio nella pista!» e fa zigzagare la macchina di colpo. Risultato: tutto salta in aria! E lo stesso poco dopo, mentre verso dallo shaker, lui di colpo disegna un 8 sulla pista e il cocktail mi finisce addosso… Non sai le imprecazioni che gli ho mandato! Divertentissimo! Tra l’altro Schumacher parlava perfettamente italiano, quindi ci siamo fatti un sacco di risate, una bellissima esperienza.
D.C. – Senti, cambiamo totalmente argomento. Dicci un po’. Acquabianca cos’è?
S.C. – Tutto nasce dalla De Kuyper Royal Distillers, che ha pensato a questa linea di liquori ideati dai bartender. Quando me lo hanno chiesto, mi sono subito messo a pensare a quale liquore potessi fare. In passato avevo già creato un liquore: un limoncello di alta qualità. Adesso però voleva fare qualcosa di diverso. Siccome amo il caffè, il primo pensiero è andato al caffè, oltre ai miei limoni della Costiera, poi al cioccolato e altre cose. Insomma mi interrogavo continuamente. Volevo creare qualcosa di unico, ma come si fa a creare qualcosa di unico in un mondo dove tutto è stato già sperimentato? Più pensavo e più mi stressavo, ho veramente sofferto. Ci ho pensato per un anno, poi due anni, ma niente, non avevo ancora una formula. Poi l’idea è arrivata da un libro. Nel mio studio ho una piccola collezione di libri antichi e, in uno di questi, del 1800, ho trovato una ricetta del 1700, dove era riportata una ricetta con un ingrediente che io non avevo mai sentito: l’ambra grigia. Scopro che si tratta di un prodotto che proviene dalla balena, e che 300 anni fa era piuttosto usato, anche perché credevano che fosse afrodisiaco. Ma non lo usavano solo nei liquori: continuando a studiare scopro che si usava anche nella profumeria. E questo fatto mi ha intrigato particolarmente, perché i liquori – diversamente dai distillati e dai vini – non hanno quasi aroma. Per cui potevo creare il liquore più profumato al mondo. Ed ecco che il mio viaggio era iniziato. Ho pensato alle note citriche, alle tre filosofie di limone – della Costiera Amalfitana da cui vengo –, al bergamotto, molto più floreale, al cedro, ovvero il limone più vecchio al mondo, citrico ma amaro, che mi aiutava con lo zucchero. Quindi ho pensato al profumo delle rose, tenendo ferma l’idea di assemblare il tutto con l’ambra grigia. Ho insistito perché ogni ingrediente fosse naturale, biologico. Oggi l’ambra grigia che usiamo viene raccolta in spiaggia: non certo direttamente dalle balene, e questo ne aumenta anche molto il valore economico. Una delle cose che mi fa più piacere di Acquabianca è forse il disegno della bottiglia, fatto da mia figlia col suo ragazzo. Il disegno evoca la forma di un libro, per omaggiare l’origine dell’idea.
D.C. – Grazie, Salvatore. È stato un piacere. Come ci salutiamo, a questo punto?
S.C. – Facciamo così. Vi lascio con una storia che amo raccontare. È un altro aneddoto sull’ospitalità. Come sai, io ho servito moltissimi personaggi famosi, della politica, dello spettacolo, della finanza. Tra questi, c’era Stevie Wonder, che ha iniziato a venire nel mio bar negli anni Novanta e tornava molto spesso. Si sentiva talmente a casa che una sera si fa accompagnare al piano e comincia a suonare come fosse a casa sua. Ha suonato per più di mezz’ora nel mio bar, pensate il momento magico per i clienti. Ma la cosa più magica per me è stata quando sono andato a salutarlo e, rovesciando la situazione, è stato lui che ha iniziato ad applaudire me. Quando gli ho chiesto perché mai facesse una cosa del genere, lui mi ha risposto solo: «Da un artista a un altro artista». Ecco, questo onore di essere paragonato a un grande artista io penso di averlo raggiunto grazie soprattutto all’ospitalità, grazie al fatto di aver fatto sentire un artista come lui come fosse a casa sua.