Una visita all’Abbazia di Vallombrosa
Religione e scienza: troppo spesso si rischia di interpretare come un ossimoro la presenza di queste due parole in una medesima frase, come se si trattasse dei due punti antipodali di una sfera. Molto più interessante è invece provare a leggerli come due punti prossimi sulla circonferenza di un cerchio, al contempo lontanissimi o tangenti, a seconda della direzione in cui si decida di guardare. La storia della ricerca umana delle risposte, siano esse filosofiche o pratiche, è infatti sempre la medesima e, se vi è un crogiolo in cui fede ed erudizione tecnica si sono eternamente fuse in maniera indissolubile, questo è quello rosso e rovente del rame degli alambicchi, gli straordinari macchinari capaci (non solo a livello metaforico) di lasciare indietro le sovrastrutture della materia per estrarre l’anima stessa degli elementi.



Ascesa e caduta della distillazione monastica
Chissà cosa pensò il primo crociato che, camminando per le strade di Gerusalemme ancora inebriato dalla gioia della vittoria e della liberazione della Terra Santa, si imbatté in quella strana pentola di rame chiusa dal lungo becco. Chi potrà mai raccontarci come convinse qualcuno di quei mussulmani, di cui fino a qualche giorno prima era stato il nemico, a dargli fiducia e a introdurlo alle tecniche segrete d’utilizzo, insegnandogli quelle parole fino ad allora sconosciute in Occidente (o come si diceva allora “nella cristianità”) come ad esempio “Al-Ambiq”, termine che definiva il vaso conico in cui si cucina - ora noto come Tajine, oppure “Al-Khul”, ovvero “polvere impalpabile” -, divenuto con il tempo “alcol”, e le tecniche create dal movimento Al-Khimiya nella ricerca della quinta essenza (il quinto elemento) dopo Aria, Acqua, Terra e Fuoco, indicati dal filosofo Empedocle come i principi fondamentali dell’Universo.
Forse non sapremo mai i dettagli, ma è certo che con la mentalità dell’epoca non gli parve strano che quello strumento scientifico così sofisticato avesse legami così stretti con il mondo del sacro, e che ricercatori come i fisici Jabir Ibn Hayyan, Al-Kindy, il leggendario persiano Avicenna (padre della medicina moderna) si fossero adoperati nella ricerca senza mai allontanarsi dalla propria fede. Ne è prova l’opera di Rhazes, un luminare alchimista e farmacista erborista che ci ha lasciato centinaia di trattati dove possiamo trovare ogni tipo di ricerca medica legata alla distillazione, ma nessuna a scopo alimentare. Il motivo è fin troppo ovvio, nell’Islam il consumo degli alcolici non è permesso.
Non sapremo mai nulla di come si consumò quel travaso di conoscenza in Medio Oriente, ma possiamo invece facilmente comprendere come questa tecnica si diffuse in Occidente. Salpati sulle navi dei benedettini, gli alambicchi attraversarono il mediterraneo, con una destinazione ben chiara, ovvero la più grande scuola medica dell’epoca, la Scuola Salernitana. Qui si ricercavano e si studiavano le proprietà delle piante, e tramite la nuova tecnologia se ne provò a estrarre le virtù a scopo medico e non solo. A differenza della religione mussulmana infatti quella cattolica non pone vincoli all’assunzione degli alcolici, e questa nuova modalità d’assunzione prese presto piede. Tramite i monasteri, vera e propria rete di conoscenze dell’epoca, questa tradizione si diffuse in tutta la penisola, e si cominciarono a distillare le piante e la frutta, a volte aggiungendoci botaniche tra cui il ginepro, già da secoli noto per le proprietà benefiche, rendendo la distillazione una vera e propria tradizione monastica in Italia (e poi in Europa) al pari della scrittura amanuense e del coro gregoriano.
Dunque da qui pare naturale che sorga la domanda: perché oggi nessuno più se ne ricorda? Certo, si trovano sparsi per tutta la penisola centinaia di liquori e di amari di ogni ordine monastico, ma il legame con i distillati pare essere andato perduto per sempre. I motivi sono molteplici: i distillati (noti per secoli con nomi quali Acqua Purissima e Perfettissima, oppure Quintessenza) erano frutto di un sapere detenuto solo dai monaci, visti anche gli elevati costi di produzione relegati all’utilizzo medico; mentre l’infusione (tecnica molto più accessibile) si guadagnò in breve tempo una fama altrettanto celebre grazie alla miracolosa guarigione di Papa Bonifacio VIII durante il primo Giubileo che portò al fiorire degli Elixir, e verso la fine del Rinascimento, grazie a Caterina De Medici, che introdusse l’abitudine di berli per piacere, al loro passaggio allo scopo ludico. In breve la liquoristica sorpassò i distillati nelle “preferenze dei consumatori”, come si direbbe oggi.
Altro elemento fondamentale nella perdita di questa tradizione fu la tendenza degli ordini monastici a specializzarsi, che portò alcune congregazioni a essere più esperte di altre in quest’arte. Quando nel 1668 ci fu lo scioglimento dell’ordine dei Gesuati chiamati “I fraticelli dell’Acquavite” (con la bolla Romanus Pontifex di papa Clemente IX che lo fece per sequestrarne i beni e darli alla Serenissima per finanziare la guerra contro i Turchi ottomani nel Mediterraneo) essi erano tra i maggiori esperti di distillazione, e cacciati dai loro monasteri nel Nord Italia, molti di essi si dedicarono a quello che era l’unico lavoro che sapevano fare, portando al fiorire delle distillerie lungo l’arco alpino e trasformando la conoscenza in qualcosa di accessibile anche ai laici. Insomma, il nemico dei distillati monastici si rivelò non essere il progresso scientifico, bensì il cambio dei costumi sociali che portarono a essere centrale nella vita dei più tematiche quali il piacere o il guadagno, secolarizzando dunque il prodotto e facendogli perdere la connessione con le proprie origini.
L'abbazia di Vallombrosa
Come quando a seguito di un’estinzione di massa qualche raro esemplare sopravvive al riparo del meteorite, così è all’ombra degli abeti più alti d’Italia che bisogna andare per riscoprire la leggenda dell’ultimo distillato di ginepro di produzione religiosa, oggi noto come Dry Gin di Vallombrosa. In un’abbazia immersa nel cuore della foresta sui monti toscani, infatti, si continua immutabilmente con la medesima ricetta a produrre il distillato, ignorando le mode e la crescente richiesta globale di gin con la determinazione di un alligatore che da sotto il filo dell’acqua guarda il mondo con gli occhi eterni dell’ultimo dinosauro.
Su queste montagne lussureggianti la storia è passata più e più volte da quando la Congregazione vallombrosana fu fondata da San Giovanni Gualberto nel 1039 sulla base della regola benedettina nell’omonima località in provincia di Regello. Tra gli obbiettivi che da sempre l’ordine si è posto vi è quello della tutela del creato, che gli ha portato nei secoli la nomea di "monaci forestali". In effetti sono stati proprio loro dall'XI al XIX secolo a gestire la foresta di Vallombrosa coltivando l'abete bianco in purezza, applicando la tecnica selvicolturale - da loro codificata - del "taglio raso con rinnovazione artificiale posticipata", ed oggi che il bosco è "Riserva naturale statale biogenetica”, San Giovanni Gualberto è Patrono del Corpo Forestale" e di tutti i selvicoltori.
In un documento redatto da un monaco vallombrosano postumo al 1640 si legge “Non si deve tralasciare il celebrato nome di Galileo Galilei, matematico insigne: questi fu un novitio vallombrosano; e fece i primi esercitii dell’ammirabile ingegno nella scuola di Vallombrosa”. Ebbene sì, nonostante ormai il nome di Galileo sia indissolubilmente legato alla scienza e il suo metodo di ricerca accettato da tutta la comunità globale, come scritto fin dalle prime righe di questo articolo, è da ingenui provare a tracciare linee di demarcazione nette. Se la storia del noviziato dello scienziato che diverrà celebre per lo scontro con il Vaticano e la successiva abiura può sembrare un particolare irrilevante parlando di gin, forse non lo è. Potrebbe infatti esser stato proprio Galileo a spingere il celebre poeta John Milton (1608-1674) nel loro incontro fiorentino del 1638 a visitare quella (all’epoca) lontana e sperduta abbazia. Lo scrittore del Paradiso perduto rimase tanto colpito da quei luoghi che ne fece parte della sua opera con i seguenti versi:
…Stood and call’d
His Legions, Angel from, who lay intras’t
Thick as Autumnal Leaves that strow the Brooks
in Vallombrosa, where th’Etrurian shades
High overarch’timbow’r…
In un infinito effetto domino intellettuale, dove la mossa di un tassello provoca lo slittamento del successivo, nei secoli a seguire la consacrazione di Paradise Lost portò Vallombrosa ad essere inserita da moltissimi inglesi nell’itinerario del proprio Gran Tour, alla ricerca dell’Eden descritto da Milton. Se molti di questi erano semplici appassionati, altri erano a loro volta scrittori e poeti, che inserirono il paesaggio nelle loro opere. Troviamo citata l’abbazia e la località in William Wordsworth (At Vallombrosa) e Alphonse de Lamartine (L’Abbaye de Vallombreuse dans les Apenins) così come nei versi di Robert ed Elizabeth Barrett Browning oltre che negli appunti di Mary Shelley. Tanti piccoli dettagli che possono apparire come semplici curiosità, ma che in realtà formano il contesto in cui un’abbazia abbia potuto e voluto conservare la propria tradizione di fare gin, e anche del come questo nome possa essersi affermato sulle montagne aretine. La presenza di un pubblico internazionale (principalmente britannico) curioso, ricco e interessato può esser certamente tra gli elementi che hanno contribuito a tener accesa la fiamma dell’ultimo gin ancestrale.




Com’è il gin di Vallombrosa?
Mentre seguo Padre Marco attraverso il refettorio in direzione delle cucine dove troneggia l’immenso focolare in pietra, il rumore dei nostri passi rimbalza contro le pareti. Anche quest’abbazia, come molte altre in giro per il mondo, nell’epoca del materialismo si deve confrontare con il calo delle vocazioni, e questi spazi che un tempo pullulavano di monaci affaccendati oggi risultano spesso silenziosi.
Nonostante l’abbazia si trovi materialmente a poco più di un’ora da Firenze, arrivare da queste parti vuol dire allontanarsi completamente dall’urbanizzazione. I lenti tornanti che salgono dolcemente la montagna appenninica si immergono nel labirinto silenzioso degli alberi sempreverde, scollegando la percezione dalla quotidianità. Il caldo pare rimbalzare sulle chiome, mantenendo questa parte di Toscana più fresca di quanto la sola altitudine permetterebbe. E poi, quando ormai l’abitudine pare essere subentrata e anche il più impenitente dei cittadini si comincia a sentire a proprio agio all’interno del bosco, improvvisamente la strada si appiana, aprendosi in un viale diritto. In quelli che in assenza dell’uomo devono essere gli Champs-Élysées di daini, istrici e lepri, si staglia sullo sfondo l’arco d’ingresso dell’edificio clericale. Già, perché nonostante l’edificio sia enorme e circondato da mura, il monastero dei vallombrosiani visto dall’esterno delle mura di cinta si mimetizza nel paesaggio come il palco di un cervo tra i rami.
È solo una volta che si superano le porte che ci si trova dentro quello che per secoli deve essere parso ai viaggiatori, che qui giungevano a piedi o sulle mulattiere, come un’oasi di civiltà nel mezzo dell’oceano verde. Appena entrati, prima ancora di arrivare alla chiesa, ecco aprirsi su un lato del cortile la bottega farmaceutica, dove a fianco della tintura imperiale e delle pomate si trovano mieli, cioccolate e appunto liquori.
Ma se in questi spazi ognuno è benvenuto, il nostro viaggio a Vallombrosa vuole spingersi un filo oltre, oltre le massicce porte di legno laterali che portano in ampie corti e strette scale, a scoprire le stanze più segrete dell’abbazia, quelle dove sono conservati i manoscritti antichi e dove si celano le celle dei monaci, i posti dove chi mira al divino può condurre la propria esistenza terreste.
Ed è proprio scorgendo l’immensità di questi spazi che si percepisce quanti confratelli queste mura erano abituate ad accogliere, e quanto oggi i superstiti del naufragio dei valori antichi siano incredibilmente determinati. Infatti qui non cambiano assolutamente le abitudini di chi ha fatto di Dio la propria scelta di vita, e che continua a mantenere viva la tradizione: «Questo mortaio», spiega Padre Marco sollevando con due mani l’immenso pestello al di sopra delle spezie, inondando involontariamente la stanza di una polvere fatta di puri ricordi olfattivi, «è quello che da sempre usiamo per preparare le piante che utilizziamo per i nostri liquori e amari».


Nonostante infatti la nostra attenzione sia rivolta al gin, faremmo torto alla tradizione e al duro lavoro dei monaci se non citassimo i numerosi prodotti che essi realizzano per il loro monastero, ma anche per altri dell’ordine, come il Liquore Montenero dell’omonima abbazia di Livorno. Nel suo cassetto giacciono ricette vive, ma anche alcune destinate tristemente all’archeologia, come quella del liquore di Santa Trinita a Firenze, estintosi insieme all’ultimo monaco dell’ordine che presidiava la Basilica minore del 1250.
Il laboratorio dove tutti questi deliziosi elixir vengono prodotti è quasi nascosto, in una stanza sotterranea illuminata artificialmente, dove l’acciaio dei numerosi tini fa rimbalzare la luce delle lampade in tutto l’ambiente. Non ci sono velleità, solo lo spazio necessario per la ricerca e l’imbottigliamento dei prodotti, e ovviamente le materie prime che le compongono.
Curiosamente, se le erbe abbondano nei liquori, a dispetto di tutte le mode moderne e contemporanee del gin, in quello di Vallombrosa ve ne è una sola: il ginepro toscano della foresta antistante. Il segreto di come e quanto questa pregiatissima bacca debba macerare in alcool, e del come e del quanto vada filtrata non è divulgabile al di fuori delle spesse mura di pietra dell’abbazia. Anche le quantità di produzione sono alquanto esigue, si parla di meno di 5000 bottiglie all’anno, praticamente dedicate per intero alla Velier, e nonostante la richiesta sia sempre crescente i monaci non vedono questo lavoro come una fonte di guadagno, ma come una missione, e tendono a essere restii a correre dietro uno sviluppo forzato e non necessario. E, quando fai una cosa per secoli, impari che a un periodo di crescita può seguirne uno di fiacca, come quando negli anni 90 del 900 nessuno più si ricordava di questo distillato, né lo desiderava, e delle allora 5000 bottiglie prodotte non si sapeva cosa farne, e si finiva per consigliarlo alle signore nella sopracitata bottega all’ingresso della chiesa, come ingrediente perfetto per sfumare gli arrosti.




Quella di Vallombrosa è una storia che è stata mai ininterrotta? Non proprio: «Il 10 ottobre 1810 per la prima volta i monaci furono costretti ad abbandonare l'abbazia», racconta Padre Marco. «Vi rientreranno solo nel 1818, ma nel 1866, in applicazione delle leggi italiane riguardanti la soppressione degli istituti religiosi, ai monaci fu tolta nuovamente l'abbazia di Vallombrosa, che nel 1869 divenne sede del primo Istituto Forestale d'Italia e i monaci di Vallombrosa si trasferirono a Pescia (Pistoia) fino al ritorno a nel 1949, reso possibile solo dalla concessione del monastero alla congregazione da parte dello Stato».
C’è dunque un prima e un dopo, dove non è realmente stimabile se e cosa della tradizione produttiva sia andato perso. Ma per fortuna la sete di conoscenza e di apprendimento umana sono i motori più forti, e già si continua a trasmettere la ricetta di questo antico “alcolato di bacche di ginepro” alle prossime generazioni: «Ho notato molto interesse in un giovane confratello brasiliano che si è trasferito qui dal nostro monastero sudamericano. Ho iniziato a formarlo, sarà lui un giorno a prendere il mio posto».
Già, perché se in Europa le vocazioni latitano, in altre zone del mondo invece la storia monastica dei vallombrosani è in pieno sviluppo e movimento: i formaggi (soprattutto la mozzarella) prodotti dai monaci del monastero di Bangalore sono reputati tra i migliori dell’India, e i ristoranti e i grandi Hotel se li fanno spedire in tutto il subcontinente.
Perché ciò che accomuna scienza e religione è l’instancabile desiderio della ricerca, e chi ha la mente aperta può immaginare qualsiasi cosa, persino che tra qualche secolo esisterà un giornalista brasiliano che possa raccontare la storia di come nacque il rum o la cachaça dei vallombrosiani, partendo dal sogno di un giovane monaco che aveva imparato a fare gin sulle orme di San Giovanni Gualberto e di Galileo.




Foto di Michele Tamasco