Fortaleza: un viaggio nella città del tequila


di Federico Bellanca 22 novembre 2022

Fortaleza

C’è una leggera nebbia nell’aria e, vedendola dall’alto della torre metereologica posta sulla sommità della collina, potrebbe sembrare che i campi di agave stiano galleggiando all’altitudine delle nuvole. Illusorio, certo, ma la considerazione per quanto ingenua non è del tutto sbagliata. La città di Tequila, il Pueblo Magico, si trova infatti a 1180 metri sul livello del mare, e se l’occhio ingenuo dell’europeo percepisce la realtà intorno a sé come poco più che collinare, siamo in realtà a un’altezza degna di rispetto.
“Remember to drink water” mi dice una voce alle mie spalle, preoccupata che finisca per disidratarmi. Mi giro e nella luce morbida del mattino messicano splende il sorriso bianchissimo, reso ancora più smagliante dal contrasto con la pelle abbronzata da surfista, di Mitch, americano di nascita ma ormai indissolubilmente legato a questa terra. È stato lui il primo ad accogliermi qui, con quel fare da eterno giovane tipico degli statunitensi unito al calore dei popoli latini. E lui mi ha guidato, dall’immensa e pululante Gudalajara attraverso le strade di Jalisco, fino a raggiungere questo borgo di poco più di 40mila anime chiamato Tequila. 

Ci sono alcuni rari casi in giro per il mondo in cui un prodotto (o meglio, una denominazione) ha una brand equity così forte da superare perfino la propria origine. Son convinto che, se vi parlassi di Champagne, focalizzerete prima la bottiglia che la regione francese. Un fenomeno ancora più evidente nel caso del tequila, la cui fama internazionale si unisce alla pochissima conoscenza che si ha nel mondo del luogo in cui esso nasca e di come sia prodotto. Per questo penso sia necessario, prima di addentrarci nella produzione e nella storia di Fortaleza, spendere qualche parola sulla meta del viaggio.

Se a prima vista questa cittadina pare rimasta ancorata a se stessa, in un mix di proposte locali e ristoranti alla buona, la realtà è ben diversa: qui infatti ogni anno accorrono migliaia di turisti, fonte di guadagno fondamentale per le casse della zona (un guadagno che è secondo solo a quello proveniente dal distillato d’Agave). Ma, diversamente da ciò che si potrebbe pensare, la maggior parte dei visitatori non proviene dal grande turismo internazionale, bensì dall’interno dell’immenso stato del Messico. Se da un lato ciò comporta che lo sviluppo di negozi di souvenir, musei delle distillerie e grandi aziende sia florido, dall’altro lato permette di mantenere una proposta più autentica e sincera, incentrata sull’artigianato locale, con la completa assenza delle catene ristorative internazionali e la ricerca del mantenimento della purezza dell’anima del posto.
E proprio come le piccole attività commerciali sono distribuite in giro per la città, così sorgono le distillerie di tequila, alternandosi alle edicole, ai gommisti, ai fiorai. 

Si apre un portone sulla strada, ed ecco spuntare una catasta di agave fresca. Un camioncino gira l’angolo, e sulla sua schiena di mulo si sente il rimbalzare delle bottiglie vuote stipate nel cassone. Un murales asciuga su un muro, e la donna rappresentata è Mayahuel, divinità azteca dell’agave.
Mentre in Europa la distilleria Chartreuse sposta la sua secolare tradizione di distillazione dal centro città alla campagna per regolamenti sulla sicurezza urbanistica, qui il problema pare lungi dall’essere anche soltanto immaginato. E la cosa più incredibile è che qui non solo si distilla, ma ancora si coltiva, rendendo la filiera cortissima e incredibilmente affascinante, soprattutto per chi sa ancora ascoltare questa terra, come la Distilleria Fortaleza, di cui tra poco (vi chiedo ancora solo qualche riga di attenta pazienza) comincerò a raccontarvi.

La storia del Tequila

Fin dall’era pre-colombiana gli aztechi amavano bere un fermentato di agave leggermente alcolico, ancora oggi molto diffuso, il Pulque. È partendo da questo fermentato leggero che, nella prima metà del Cinquecento, con l’arrivo dei primi alambicchi nelle colonie, si inizia a produrre un distillato. 

Nel 1512 viene fondata la città di Tequila, di cui finora abbiamo parlato. Qui nel 1795 Carlo IV di Spagna concederà alla famiglia Cuervo il diritto di distillare quello spirito che presto prenderà lo stesso nome della città. Nel 1873 Don Cenobio Sauza, fondatore dell’omonima azienda, è il primo a esportare tequila negli Stati Uniti, creando così le basi per un successo globale; un successo che però richiede anche delle regole per impedire contraffazioni o prodotti di scarsa qualità. È il 1974 quando viene promulgato il primo disciplinare di produzione del tequila, che tra le altre cose impone l’uso esclusivo dell’agave Azul Tequilera Weber come materia prima, e definisce le eventuali tipologie che derivano dall’invecchiamento: oltre alla bianca esistono infatti la Reposado (minimo due mesi in botte di quercia) la Anejo (minimo un anno)  e l’Extra Anejo (minimo tre anni). 

Nel frattempo, se da un lato le regole del disciplinare sono oggi garanzia di un prodotto di qualità, dall’altro la crescente “sete” di tequila a livello mondiale ha portato i grandi gruppi beverage a investire, acquisendo i marchi artigianali, e rendendoli sempre più meccanizzati e standardizzati nella qualità. Uno dopo l’altro gli storici brand sono stati ceduti alle multinazionali, rendendo quello che era un patrimonio immateriale di conoscenze antiche sempre più tangibile e quantificabile, migliorabile e quindi privo di poesia.

Fortalezza, ovvero il ritorno alle origini

“NOT FOR SALE”. La scritta arrogante, sicura e provocatoria campeggia sul petto di Stefano Francavilla, italiano ormai da anni stabilitosi in Guadalajara. La maglietta che indossa infatti vuol essere la spiritosa provocazione di chi sa di rappresentare un’azienda familiare che ha visto ogni lato della medaglia nel business del tequila, e ora ha scelto dove schierarsi. 

Ricordate Don Cenobio Sauza, colui che a fine 800 aveva esportato per primo negli USA? L’azienda con il suo nome dopo varie generazioni è stata venduta a una multinazionale, che prosegue il suo lavoro conservando l’etichetta storica sulla bottiglia. Tutti contenenti dunque? Forse, ma c’è chi, come Guillermo Erickson Suaza, quinta generazione, era ancora assetato, e non certo di denaro. In lui viveva forte il desiderio di mantenere viva la tradizione ancestrale della produzione, quella precedente l’epoca stessa della meccanizzazione. Partendo da quella che era l’ultima distilleria rimasta dopo la vendita, chiamata appunto “La Fortaleza”, e dai campi che la circondano, per provare a ripartire dai margini della città, dove i mari verdi di agave si scontrano contro le case, come immense onde di natura sugli scogli della civiltà umana. 

Qui tra le colline morbide e i laghetti artificiali crescono le piante, attendendo di essere raccolte allo scadere dei propri 6-7 anni. Per gestire queste lunghissime tempistiche bisogna studiare meticolosamente la rotazione dei campi, curando al meglio ogni aspetto della produzione. Ci si rende conto del lato agricolo di questo processo girando per i campi insieme ai ragazzi che qui ci trascorrono le giornate: si passa da piccole piante che potrebbero essere messe in vaso e tenute in balcone a gigantesche foglie talmente estese da toccarsi con le vicine, rendendo impossibile il passaggio tra un’agave e l’altra e obbligando a lungi giri nei filari. 

Una volta raccolte, le immense piante mature vengono caricate sui camion e portate alla distilleria dove vengono cotte in grandi forni a vapore per circa 30 ore e poi “spremuti” con una gigantesca macina di pietra (chiamata tahona e fatta di pietra vulcanica) come si faceva storicamente, abbandonando ogni automatizzazione. Un procedimento a cui Guillermo e i suoi tengono particolarmente, tant’è che questa grossa ruota granitica è apposta come simbolo sulle etichette ed è un po' anche il simbolo del ritorno alla tradizione propugnata dalla famiglia. Ogni ora del giorno e della notte la ruota continua incessante il suo lavoro di spaccatura, ricoperta da lacrime di liquido, lasciando stormi di filamenti scuri e macerati, pronti a essere rimossi.

Il succo denso di questa spremitura viene messo a fermentare in dei grossi tini aperti, da cui l’odore dell’aspro e della vita ribolle primordiale: una densa schiuma di zuccheri che giorno dopo giorno crea la propria infinita magia. Dopo 3 giorni finalmente introduce il liquido negli alambicchi, per procedere con la prima distillazione. Dal piccolo pot still di rame esce un primo liquido morbido e profumato, di circa 16 gradi, prima crisalide di quella farfalla che verrà poi imbottigliata. Il secondo passaggio crea un distillato forte, deciso e ricco di personalità, a 57 gradi. Nella sua nuova veste, baldanzosa e adulta, il prodotto è già pronto per essere amato dai palati più esperti. Ma per avere una versione adatta ai palati dei più, si tende ad abbassare la gradazione di qualche grado, fino ai canonici 40 a cui tutti siamo abituati. 

La filtrazione avviene attraverso il  carbone, un processo che permette di mantenere inalterate tutte le note e i profumi. La riprova di ciò sta non tanto negli invecchiati, ma in quello che di fondo è il prodotto di riferimento per il messicani e i puristi, ovvero la Blanco: aromi di agrumi e note vegetali sono subito percepibili al naso insieme all’importante profumo di agave, mentre al palato si colgono le complessità dell’agave cotta con sfumature di vaniglia, basilico, oliva e lime. 

Cosa rende così unico questo distillato? Volendo prendere in prestito una parola al lessico del vino, potremmo dire che a inficiare è senza dubbio il “terroir” vulcanico su cui sorgono i campi. Qui in Fortaleza si può vivere un’esperienza unica, tanto divertente quanto necessaria per capire al meglio la geologia del territorio: sul lato della montagna, accanto a un mucchio di agavi che paiono accatastate da un qualche Robespierre delle Asparagaceae, si apre una grotta scura e profonda. La si penetra a luce di candela, seguendone i cunicoli sotterranei fino ad arrivare a un salone cerimoniale di lava scura, dove ovviamente sorge un bar. 

Brindare al livello delle radici ha dell’incredibile, del resto di razionale in questa storia c’è ben poco. O forse molto di più di quello che si crede: qualche anno fa il prezzo era di 3,5 pesos per chilo di agave, mentre oggi è di ben 28 pesos. Se negli anni molti consumatori hanno percepito il tequila come un prodotto base, complici anche alcune pessime abitudini di consumo importate dagli USA ma divenute comuni anche qui da noi come gli “shot”, oggi il prodotto viene riscoperto per il suo incredibile potenziale in miscelazione e per la sua complessità aromatica in degustazione, complice anche il necessario riposizionamento dei prezzi. Per questo necessita di essere ri-raccontato con nuove storie e nuove chiavi di lettura. E ancora una volta la famiglia Sauza ci ha visto più lungo degli altri, e le basi perché quest’epopea familiare abbia davanti altre generazioni è senza dubbio solida.

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