Alla scoperta del Pisco
Foto di Karina Mendoza
Riconoscerlo semplicemente come ingrediente distintivo del celebre Sour è quantomeno riduttivo. Partendo da un suo viaggio in Perù, Maurizio Maestrelli ci parla del pisco, un distillato dalla lunga e affascinante storia alle spalle, con un disciplinare rigido quanto severo, ma soprattutto una serie di sfumature che meritano di essere colte. A partire dalle tre diverse tipologie: Puro, Acholado e Mosto Verde.
Foto di Karina Mendoza
Cerco sempre di preparami adeguatamente quando ho in programma un viaggio stampa. Fosse di un giorno o di una settimana poco importa. Odio arrivare semplicemente portando con me valigia e ignoranza.
Pertanto, se si trattava di andare in Perù alla scoperta del pisco, il minimo che potevo fare era bermi qualche Pisco Sour di riscaldamento in un paio di locali milanesi che reputavo all’altezza della vigorosa shakerata, necessaria a trasformare l’albume d’uovo, parte integrante della ricetta, in una schiuma compatta come neve fresca.
Foto di Karina Mendoza
Così ora mi trovavo a Lima, la capitale del Paese, immerso in un traffico che stava a quello di Milano come una specialista in cardiochirurgia sta a un campione di Allegro Chirurgo, sereno nella mia consapevolezza che il pisco è un distillato d’uva, il Pisco Sour è buonissimo e shakerare albume d’uovo come si deve richiede braccia allenate.
Un po’ troppo poco, in effetti. Nel giro di una settimana, al ritmo di due distillerie al giorno, mi sarei dovuto ricredere. Di certo essere in Perù significava essere nell’unica, vera e autentica patria del pisco.
La vexata quaestio tra cileni e peruviani su chi possa vantare i diritti di primogenitura, paragonabile solo alle antipatie storiche tra città italiane che si sono sfidate per anni ai tempi di Comuni e Signorie, si risolve a favore dei secondi.
Non solo perché Pisco è una cittadina del Perù centro-meridionale, capoluogo della regione di Ica, fondata nel 1640, ovvero pressappoco un centinaio d’anni dopo l’arrivo degli spagnoli guidati da Francisco Pizarro; e nemmeno soltanto per la dichiarazione scritta dalla cilena Isabel Allende che, ne Il mio paese inventato, confessa: “Il nome di questo liquore l’abbiamo usurpato senza troppi complimenti alla città di Pisco, in Perù”; quanto piuttosto per un oscuro greco, arrivato sulle coste del Pacifico dalla mediterranea Corfù, inventatosi vignaiolo proprio a Ica, e firmatario di un testamento nel quale dona a un suo dipendente un barile di aguardiente; testamento datato 30 aprile 1613.
Foto di Karina Mendoza
L’aguardiente da distillazione aveva come materia prima la stessa uva che prendeva, soprattutto nei primi anni, la strada del vino. Il vino, esatto. Perché una delle prime cose che gli amici peruviani pensarono bene di ribadirmi a più riprese è che il pisco nasce dal vino. Un vino necessario per celebrare messa ai cattolicissimi conquistadores – tanto più quanto privi di remore nel conquistarsi a colpi di spada e cannone un altro impero dopo quello azteco – e un vino che, dalle finalità religiose, assunse presto dimensione sociale ed economica, al punto che in breve tempo quello peruviano prendeva a ritroso la strada che, dalla Spagna, aveva compiuto la prima vitis vinifera.
Ora, finché le esportazioni furono irrilevanti o quasi, andò tutto bene. Ma nel momento in cui il vino peruviano iniziò a diventare un serio competitor per i vini spagnoli, le cose presero una brutta piega, e la sensibilità del sovrano dell’impero “nel quale non tramontava mai il sole” si dovette piegare all’agitazione dei viticoltori locali. Tanto da introdurre una tassazione insostenibile ai bravi peruviani, i quali risposero come rispondono ancora oggi molti vignaioli in crisi. Distillando.
Il pisco nasce dunque come una necessità economica, una risposta al protezionismo della Madre Patria, ma trova subito una calorosa accoglienza. In Perù, ovviamente, ma pure su altre rotte commerciali, che presto vengono stabilite lungo la costa del Pacifico, e che trovano in una città come San Francisco – nel pieno del delirio da febbre dell’oro –, uno sbocco sensazionale.
Può sembrare strano, annichiliti come siamo da film western, dove ogni sosta al saloon sembrerebbe significare bere del whisky, pensare a questi pionieri, minatori, delinquenti e tutori dell’ordine che concludono le serate svuotando bottiglie di pisco, ma è un dato di fatto. E non deve quindi sorprendere troppo che uno dei primi “pisco cocktail” a ottenere fama, ed essere giunto fino ai nostri tempi, sia il Pisco Punch, inventato da Duncan Nicol, alla fine del XIX secolo, proprio nella “city by the bay”.
Foto di Maurizio Maestrelli
Lo stesso Pisco Sour, benché preparato per la prima volta a Lima, testimonia lo zampino statunitense in questa storia, giacché Victor Morris – il barman che decise ingredienti e tecnica di preparazione – non era altro che un immigrato americano originario di Salt Lake City.
Ammainata tuttavia la bandiera a stelle e strisce e – almeno per ora – l’argomento cocktail, torniamo al pisco che, fin dalla prima distilleria visitata, mi fu chiaro quanto non fosse un monolite senza sfumature e diversità.
Foto di Karina Mendoza
Una prima idea, seppur vaga, me l’ero fatta nelle ore di viaggio nel van, trascorse ammirando il susseguirsi ininterrotto delle onde del Pacifico alla mia destra e, alla mia sinistra, un alternarsi di zone pressoché desertiche intervallate ogni tanto da aree più verdi e coltivate.
Le aree in questione coincidono con i corsi d’acqua che, dalle Ande, scendono verso l’oceano, ed è in queste vallate appena abbozzate che si nascondono i vigneti.
La leggendaria Panamericana, che parte dall’Alaska e arriva fino a Ushuaia, punta estrema del continente sudamericano, permette dunque di attraversare tutti i terroir del pisco: dalla regione di Lima, la più settentrionale, fino a quella di Tacna passando per Ica, Arequipa e Moquegua.
Le regioni del pisco sono queste, lo dice un Decreto Supremo del 1991, nel quale tra le altre cose si riconosce il pisco come denominazione di origine peruviana. Un Decreto Supremo, già, perché il pisco peruviano, per essere definito tale, deve osservare diverse regole e quella delle zone di produzione è soltanto la prima.
Foto di Karina Mendoza
E se le uve ammesse sono solo otto, anche la produzione segue regole ben precise. Si parte dal mosto d’uva appena fermentato, lo si distilla una volta sola in colonna, in alambicco tipo charentais o nella più tradizionale “falca”; lo si lascia riposare un minimo di tre mesi senza ridurne il grado con acqua, tra i 38% e i 48% vol, e senza far ricorso a botti, barrique, tonneau o qualsiasi cosa sia fatta di legno.
Il pisco peruviano infatti è cristallino come acqua di sorgente, tanto che, se nei tasting si ripone il calice al posto sbagliato, si rischia di confondersi. A patto però di non aver portato il bicchiere al naso, perché allora si compie la magia, e il “monolite” si disintegra.



Ogni singolo pisco ha infatti una sua personalità e una sua chiave di lettura. Se si tratta di Pisco Puro, ovvero del distillato di una singola varietà di uva, ogni bicchiere si trasforma in una carta velina attraverso la quale leggere i profumi e il gusto dell’uva e del territorio dove è maturata; se si tratta invece di Pisco Acholado – ovvero di un distillato che può essere un blend di uve diverse, di mosti fermentati diversi o anche di Puro diversi –, la sorpresa riguarda le capacità dell’uomo che ne decide il profilo aromatico, il bouquet, lo spessore e la persistenza al palato. Infine, nell’ultimo caso, quello del Pisco Mosto Verde, l’interruzione anticipata della fermentazione, quando ancora non tutti gli zuccheri si sono trasformati in alcol, fa esplodere con maggiore decisione il gusto fresco dell’uva quasi stessimo facendo scrocchiare degli acini sotto i denti.
Insomma, per quanto mi riguarda, in una sola settimana, da bevitore occasionale di Pisco Sour mi ero trasformato in sorseggiatore seriale di pisco nella sua nudità, priva di qualsiasi ornamento – che fosse albume d’uovo, vermouth come nel cocktail El Capitan o ginger ale, come nel long drink Chilcano.
Tuttavia, dopo aver sorseggiato un numero incredibile di pisco diversi, e averlo bevuto in quasi infinite varianti di cocktail, dai classici agli sperimentali firmati dal talentuoso Aaron Diaz del Carnaval Bar di Lima, e dopo aver visto centinaia di piscos, le anfore in terracotta che un tempo si usavano per trasportare il distillato, e dopo aver mangiato qualche chilo di Quebranta, accarezzato un tipico cane peruviano glabro come un bambino appena nato, ma anche decisamente più rugoso, e dopo aver addentato qualunque tipo di ceviche e sgranocchiato il tradizionale cuy chactado, ovvero la pelle ben cotta di un porcellino d’India – dopo tutto questo, l’immagine che conservo con maggiore nitidezza della mia trasferta peruviana, e quella che mi ha convertito per sempre a “pisquero” dilettante, riguarda un signore vestito di bianco, un cappello a tesa larga e il volto segnato da mille e mille giornate al sole, che chiede a un suo collaboratore di continuare a buttare legna sul fuoco che arde sotto il calderone, mentre lui osserva il liquido cristallino sgorgare da un ugello direttamente nel bicchiere, che poi mi offre con un sorriso. Il cuore della distillazione, il cuore del pisco, il cuore dei peruviani.